Il mondo del gaming unisce narrazione, interattività e sviluppo personale. Su DG ne vogliamo parlare partendo, come chiave, dalla teoria dei giochi di Huizinga, il videogame diventa uno dei mezzi essenziali per costruire l’identità. Dunque, il gioco è una funzione fondamentale nella cultura umana …
La teoria dei giochi è un approccio che non solo aiuta a modellare la struttura di un videogioco, ma influisce direttamente sulla costruzione della personalità. Il concetto di gioco va ben oltre il semplice intrattenimento; come affermato nel celebre saggio Homo Ludens, il gioco è una funzione fondamentale nella cultura umana. Non solo crea contesti dove la personalità si sviluppa, ma agisce anche come una rappresentazione simbolica di regole sociali e dinamiche relazionali.
DigitalGuys ha chiamato due amici che su questo tema possono, a buon diritto, dire la loro e lo hanno fatto in modo esaustivo. Doveva essere una semplice intervista ma si è trasformata in una vera e propria narrativa sintesi del mondo games: Carlo Cuomo, Formatore, Designer e Consulente di Edutainment, Gamification, Media, IT e UX e Lara Oliveti, Co-founder and CEO at Melazeta srl, Delegato Filiera Digitale, Membro del Consiglio Generale Confindustria Emilia Centro, Unstoppable Women – StartupItalia.
D. “Show, don’t tell”, è un escamotage narrativo che viene spesso citato quando si parla di videogame…. Si tratta solo di un escamotage linguistico o c’è dell’altro?
Carlo.
In primis, si deve dire che lo “Show, don’t tell” è un approccio narrativo che parte dal desiderio di voler raccontare qualcosa attraverso un’immagine, statica o in movimento, o con la descrizione di un’azione piuttosto che di uno stato d’animo o di un personaggio, nel caso di un testo. Questo perché, l’autore che decide di adottare questo approccio, probabilmente ritiene che il modo migliore per raccontare la sua storia o veicolare un messaggio sia quello di “mostrare” o di “suggerire”, lasciando spazio al fruitore di costruirsi la propria interpretazione personale senza una narrazione esplicita. In quest’ottica, non è difficile comprendere come lo “Show, don’t tell” sia molto in linea con la comunicazione contemporanea, permeata da contenuti “visual”, e, in alcuni casi, con il videogioco, medium che fa dell’interattività e del “far fare” il suo elemento intrinseco distintivo.
C’è anche da dire che, parlando di Edutainment, ovvero educare/comunicare con l’intrattenimento, lo “Show, don’t tell” risulta essere molto efficace quando vengono trattate tematiche “forti” dove l’accenno a qualcosa risulta essere molto più evocativo di quanto lo sarebbe il raccontare ciò che sta accadendo e questo può valere anche se parliamo di Gaming. Se da un lato, infatti, nei videogiochi, questo approccio può avere una funzione strettamente legata all’immersività e al gameplay (decido di non raccontare per immergere ancora di più il videogiocatore nel gioco o nell’azione), dall’altro, esso può svolgere delle funzioni drammaturgiche, soprattutto in quei titoli che presentano una componente “serious”. Non è un caso, infatti, che videogiochi come Gris, puzzle-platform in cui vestiamo i panni di una ragazza che in un mondo in bianco e nero deve ritrovare i colori della sua vita, o Journey, un viaggio nel deserto nei panni di un nomade errante, utilizzino questo approccio per lasciare che il giocatore si emozioni dando la sua personale interpretazione al “viaggio” che sta vivendo ed al significato che esso porta con sé; o che titoli come l’italiano “The Last Day of June”, che tratta il tema dell’elaborazione del lutto, e numerosi altri scelgano di mostrare una narrazione senza l’uso delle parole, un po’ come la sequenza iniziale del film d’Animazione “UP” della Pixar, ma consentendo al fruitore di “prendersi il suo tempo” per metabolizzare la storia “mostrata” e fare le sue scelte.
In conclusione, a mio avviso, possiamo affermare, che, lo “Show, don’t tell” non sia un mero escamotage linguistico, ma che anzi possa essere considerato un potente alleato dello storytelling, sia con funzioni di potenziamento del coinvolgimento che con valore drammaturgico – serious.
Lara.
Il perfetto connubio tra narrazione e gameplay è spesso la chiave del successo dei giochi di ultima generazione. In alcuni casi, la narrazione riesce persino a prevalere sul gameplay, suscitando intense reazioni emotive nei giocatori.
Tuttavia, l’esortazione “Show, don’t tell” è ben compresa nel mondo videoludico. La vera abilità e sfida artistica degli autori risiede nel trovare nuove forme espressive che arricchiscano i gameplay e non imitino il cinema, e che siano armoniose, evitando di inserire forzatamente elementi di storytelling – ad esempio nei gameplay d’azione, sportivi o platform – in modo strumentale.
L’evoluzione dei gameplay ha portato ad una fusione dei generi, permettendo allo storytelling di emergere anche in chiave metaforica. Come esempi citiamo Celeste o Firewatch e What Remains of Edith Finch (in questo caso grazie la ricostruzione di frammenti raccolti con la scoperta di oggetti, dialoghi con NPC e l’ambiente). Nei serious games, il processo invece può essere inverso, specialmente quando si tende ad inserire una narrazione per stimolare l’apprendimento perché siamo consapevoli che il racconto così come l’interazione hanno una forte efficacia. Tuttavia, si rischia di avere un effetto contrario se la narrazione è artificiosa e non viene integrata in modo naturale all’interazione ludica. Nel futuro già attuale, grazie all’utilizzo delle MR, probabilmente molti giochi con contenuto educational diventeranno totalmente Show, in quanto saranno simulazioni metaforiche immersive così come i giochi finalizzati ad allenare le soft skills e change behavior, sempre grazie alle MR e alla stimolazione sensoriale, influenzeranno la risposta emotiva e cognitiva.
D. La linearità della storia viene mandata in frantumi da un certo tipo di videogame, quelli a mondi aperti. Quindi la traccia narrativa si esplica in decine e decine di piccole storie di avventure satelliti che si intrecciano simultaneamente parafrasando l’attività creativa cerebrale … Mi dici qualcosa su questo tipo di storytelling?
Carlo.
Il tema dello storytelling videoludico è estremamente ampio ed è difficile sintetizzarlo in poche battute. Questo perché, a differenza degli altri media, il videogioco, essendo interattivo, presenta una componente ad alto tasso di engagement che è data dal gameplay e dalla possibilità per il fruitore di “agire” piuttosto che di “fruire passivamente” un’opera come nel caso del Cinema o di altri media. Con questo non si vuole intendere che questi altri media siano poco coinvolgenti, anzi, ma che facciano leva su elementi differenti rispetto all’interattività come l’immedesimazione, la contemplazione o la “scoperta” di una storia. In quest’ottica, la percentuale di utilizzo dello storytelling in un videogioco è strettamente connessa a vari fattori, come il genere ad esempio, portando a produzioni in cui la narrazione è totalmente assente, come molti casual game o First Person Shooter, fino ad arrivare a titoli che sembrano dei veri e propri film interattivi. Negli Open World, che spesso tendono a intercettare il profilo giocatore dell’Explorer (per maggiori informazioni sui profili giocatori consiglio di approfondire il lavoro di Richard Bartle sulla loro tassonomia), la narrazione viene “frammentata” e “sparpagliata” in un mondo più ampio che si compone anche di sotto-trame, approfondimenti o storie parallele, spesso “raccontate” grazie alle missioni secondarie. Ciò, a mio avviso, non vuol dire che un profilo “Achiever” non possa comunque godere di quel videogioco dal punto di vista narrativo. Egli, infatti, dovrà solo scegliere di non “perdersi” nell’esplorazione e nelle trame secondarie, andando spedito, di missione principale in missione principale, verso quella che è la main quest, limitando il numero di ore di gioco ed evitando di “frammentare” la storia.
Lara.
Rifacendomi alla risposta precedente, la sfida è generare nuovi generi di giochi. Oggi si predilige un percorso esplorativo con mission principale ed elementi raccolti, sfide nelle sfide e frammenti che vanno a ricongiungersi. I designer di giochi “Metaverso” stanno provando ad andare oltre ai gameplay tipo Treasure Hunt, Battle Royal, Simulatori, Tycoon e Obby, e creare uno storytelling innovativo valorizzando le potenzialità multiplayers. Anche in ambito Edu si sta sperimentando ma è già significativa la scelta di Google di lanciare “Be Internet Awesome World”, un’esperienza di gioco interattiva educational che insegna la sicurezza online in modo divertente proprio su Roblox. Anche il mio team con il gioco “Zaaratan and the Legendary Stars” si è cimentato in un gameplay narrativo con elementi edu partendo da una IP proprietaria.
D. Con l’arrivo del metaverso, il gioco ha acquisito nuovi paesaggi: vale ora “be embodied, don’t tell”?
Carlo.
In realtà questo concetto è sempre stato valido, ludicamente parlando. Sia che si parli del “giocare ai cow-boy” da bambini che con giochi da tavolo o giochi di ruolo, il concetto di embodiment ha sempre permeato l’universo ludico, sia come forme di personificazione in un altro da sé che come nuova rappresentazione di sé stessi in un mondo virtuale. È chiaro che l’alta personalizzazione di alcuni videogiochi o dei metaversi, che ti consentono di definire ogni micro-dettaglio del tuo “Avatar” digitale, possano far raccontare tanto di sé stessi grazie al modo in cui si decide di presentare la propria identità digitale ed è per questo motivo che ritengo che non sia una novità questo tipo di approccio ma che esso si stia solo evolvendo man mano che cambiano e si diffondono i mondi virtuali.
Lara.
Non accontentandomi del film, ho recentemente letto il libro di Ready Player One. Oltre ad essere una library infinita di citazioni della storia del videogioco e dell’intrattenimento degli anni ‘80, nella lettura ci si può soffermare maggiormente sui personaggi. Ready Player One di Ernest Cline e il film diretto da Steven Spielberg trattano in parte il concetto di embodiment attraverso l’uso della realtà virtuale. Nel mondo di OASIS, i personaggi possono assumere qualsiasi forma e vivere esperienze immersive che sembrano reali grazie a visori VR e guanti aptici. Questo permette agli utenti di “incarnarsi” in avatar digitali, sperimentando una realtà alternativa in modo molto tangibile. L’incarnazione descritta non è solo “La rivincita dei nerds” che diventano protagonisti ed eroi, ma il riflesso di dinamiche sociali che lasciano la libertà di espressione.
D. Embodiment è spesso erroneamente tradotto con “immedesimarsi”: le radici indiane del termine avatar suggeriscono qualcosa di più… Cosa ne pensi?
Carlo.
Credo che parlare di “immedesimazione” sia estremamente riduttivo. Così come su un Social Network una persona racconta una versione “alterata” di sé, scegliendo cosa mostrare e come mostrarsi (spesso optando per quella più felice e più “socialmente accettabile” – d’altro canto, l’avverbio utilizzabile in questo contesto è social-mente), lo stesso può avvenire in altri contesti come i Metaversi o il mondo del Gaming.
Sia che si parli di un social piuttosto che di un altro, sia che ci si trovi in un metaverso online o un role play game, queste versioni di sé, che spesso rappresentano un “what if”, inteso come “la versione che vorrei o potrei essere”, sono comunque caratterizzate da una propria identità, in questo caso digitale, che prova delle sensazioni, opera secondo delle norme comportamentali coerenti rispetto al suo essere e, in tutti i sensi, permane finché si ha voglia di far parte di quell’universo digitale. Ecco perché è importante, a mio avviso, sensibilizzare su questi temi e varare delle norme riconosciute ed ecco perché vale la pena investire tempo e risorse in una cultura digital che, non solo limiti l’analfabetismo digitale, ma possa anche restringere il gap generazionale, avvicinando le persone e le generazioni in modo “sano” e “consapevole” e riportando questi strumenti alla loro funzione originale, ovvero la connessione tra esseri umani.
Lara.
Il termine embodiment suggerisce il concetto di incarnazione che nei mondi virtuali si traduce nel sentirsi fisicamente presenti e di percepire un corpo virtuale come proprio. Questo fenomeno merita approfondimenti perché può essere fonte di sperimentazioni offrendo nuove prospettive per la ricerca, la terapia e l’apprendimento.
D. Quali sono a tuo avviso i numeri che caratterizzano i video giochi immersivi con VR ad oggi? Quale futuro vedi per il VR Gaming?
Carlo.
Personalmente non credo molto nel Gaming in VR (sebbene trovi questa tecnologia molto potente per altri ambiti come quello simulativo o didattico, in alcuni casi specifici). Questo perché: in primis, il VR non è pensato per lunghe sessioni di gioco, a differenza dei videogiochi “tradizionali” in cui i player si immergono anche per diverse ore. In secondo luogo, il VR ha ancora un’alta barriera in ingresso, lato costi. Infine, sebbene l’esperienza di gioco in realtà virtuale sia estremamente immersiva e coinvolgente per l’utente, il numero di titoli esistenti non è elevatissimo e, spesso, si preferisce investire il proprio tempo e le proprie risorse in giochi tradizionali e magari limitarsi a “provare” quei titoli VR considerabili capolavori, se si hanno le possibilità per farlo. Essendo poi un “Accademico” e amando molto le affermazioni che si basano sui “dati” non si può non segnalare che il mercato del gaming VR, stando all’ultimo Report di NewZoo, conta circa 46 milioni di visori venduti e un introito di 3,2 miliardi di dollari. Questi numeri, che potrebbero sembrare considerevoli, in realtà sono poco significativi se si rapportano a quelli del Gaming in generale che vanta un fatturato di 184 miliardi di dollari, affermandosi come prima Industria del settore Intrattenimento, e un numero di giocatori pari a 3,26 miliardi di persone. Stando a questo raffronto, quindi, è facile intuire, a mio avviso, che il settore dei videogiochi in VR è considerabile quasi un “genere” dell’Industria del Gaming, rivolto quindi ad una nicchia specifica di appassionati e non avente, pertanto, le premesse di diventare lo “standard”.
Lara.
Personalmente credo nel futuro dell’AR e MR. I nuovi Spectacles by Snap, ad esempio, o gli annunciati Meta Orion renderanno sia il gioco che le esperienze quello che aspettavamo da anni e che la tecnologia ancora non ha supportato. Il VR, invece, ha molti limiti di usabilità, di costo e di isolamento che finora ne hanno decretato una presenza sul mercato molto limitata